Welfare aziendale
28 Feb 2020

Retribuzioni e welfare: cosa sanno e vogliono i dipendenti

Retribuzioni e welfare: cosa sanno e vogliono i dipendenti

Il “Rinnovamento contrattuale” sottoscritto da Federmeccanica e Fiom-Fim-Uilm il 26 novembre dello scorso anno e che prevede l’erogazione di servizi di welfare per un controvalore che partendo da 100 euro (giugno 2017) arriverà fino a 200 euro a giugno 2019, rappresenta un nuovo paradigma nelle relazioni industriali. Non è un semplice ammodernamento negoziale, ma si tratta piuttosto di una nuova prospettiva culturale e una prassi diversa. Non è solo l’introduzione di nuovi elementi (assistenza sanitaria, diritto alla formazione, flexible benefit), ma è una nuova impostazione concettuale: considerare l’impresa come un “valore sociale condiviso” e il mettere la “persona al centro”. Questi sono i nuovi asset del paradigma delle relazioni fra impresa e dipendenti.

Una svolta che non riguarda solo i metalmeccanici: anche il contratto nazionale di orafi e argentieri prevede l’obbligo di erogare flexible benefit ai dipendenti a partire da gennaio 2018 (100 euro che diventeranno 150 da giugno 2019, 200 da giugno 2020), mentre nelle telecomunicazioni è prevista una sperimentazione, finora valida solo per il 2018, che prevede l’erogazione di servizi di welfare per un controvalore di 120 euro.

Com’è evidente, il terreno del confronto si amplia oltre i canoni tradizionali (salario). Trattandosi di un cambiamento culturale, dev’essere chiaro che si tratta di un nuovo modo di intendere il rapporto “impresa-dipendente” e la relazione “lavoro-salario”, da cui le iniziative di welfare aziendale per i metalmeccanici prendono origine. In assenza di ciò, sarà complicato accettarle o intravederne le opportunità che dischiudono.

In questo senso, la quarta ricerca del Monitor sul Lavoro (Mol), realizzata da Community Media Research per Federmeccanica, ha inteso affrontare il tema del welfare aziendale. L’obiettivo generale della rilevazione era, da un lato, verificare il grado di diffusione di simili attività presso le imprese; ma, soprattutto, dall’altro lato, cogliere gli orientamenti e le attese dei dipendenti nei loro confronti.

Il quadro complessivo che risulta mostra di diversi aspetti positivi. Ma, com’era plausibile attendere, ci sono ambiti di miglioramento che devono essere perseguiti e punti cui prestare una debita attenzione affinché aumenti la consapevolezza del valore dei sistemi di welfare aziendale.

Fra gli aspetti positivi, in oltre la metà delle imprese (54,2%) si registra la presenza di almeno una attività legata al welfare aziendale. Ma là dove esse sono presenti, è più facile che non risultino iniziative isolate: piuttosto, le imprese sviluppano un ventaglio relativamente ampio a favore dei dipendenti. Inoltre, va detto che il sistema produttivo s’è mosso ben prima del legislatore e delle stesse organizzazioni di rappresentanza. Se nei due quinti dei casi (42,7%) le forme di welfare aziendali hanno preso vita nell’ultimo quadriennio, nel restante 57,3% queste affondano le loro radici temporali più indietro nel tempo, con un 14,2% che ha oltre 20 anni di sperimentazione. Quindi, il welfare aziendale non risulta essere un’invenzione attuale, ma –seppure in forme diversificate – costituisce un’esperienza realizzata da diverse realtà imprenditoriali.

In secondo luogo, si trova conferma alle tesi secondo cui la presenza di iniziative di welfare aziendale genera un più elevato benessere organizzativo, un miglioramento della soddisfazione e dell’attaccamento dei dipendenti, un incremento della produttività. In altri termini, l’adozione di forme integrative per i dipendenti costituirebbe un vantaggio competitivo per le imprese. Esiste una correlazione diretta fra la presenza in azienda di sistemi di benefit e la percezione di miglioramenti nelle condizioni di lavoro, nelle relazioni sociali interne, nel livello di riconoscimento nei confronti dell’impresa e di utilità ed efficacia generale. I dipendenti che possono sperimentare concretamente i sistemi di welfare aziendale offrono valutazioni decisamente più positive dei loro colleghi.

Altri fattori, invece, evidenziano elementi a cavallo fra positività e problematicità. Ad esempio, il grado di conoscenza della normativa attuale in materia di welfare aziendale. Ancora poco meno della metà dei dipendenti (47,1%) è consapevole che le iniziative collegate al welfare non sono tassate come un eventuale tradizionale aumento in busta paga. Il tema di una informazione capillare presso i dipendenti è un prerequisito fondamentale affinché le iniziative di welfare possano essere accettate e apprezzate. Inoltre, è sottolineata la richiesta che le iniziative di welfare aziendale siano il più possibile ritagliate sulle esigenze individuali (57,3%): vantaggi flessibili e tailor made.

Infine, viene il tema del welfare legato alla dimensione d’impresa. Considerato il panorama della struttura produttiva italiana, dove il 90% delle imprese si colloca al di sotto della soglia dei 10 dipendenti, è evidente che non solo i benefici aziendali debbano in prospettiva declinarsi sempre di più sul piano individuale, ma anche il sistema di welfare deve proporsi con soluzioni  tailor made che siano facili da adottare anche per le piccole imprese.

Affinché le iniziative di integrazione abbiano una maggiore diffusione e siano accolte positivamente da una più ampia platea di dipendenti (e anche imprenditori), è necessario avviare sicuramente uno sforzo capillare di informazione e di reale conoscenza dei vantaggi e delle opportunità che essi possono generare. Ma poiché siamo di fronte a un vero e proprio “passaggio culturale”, a un cambio di paradigma, il punto cruciale è far percepire il “valore” del welfare. C’è sicuramente un valore economico, fondamentale e ineludibile (materiale), che deve essere riconosciuto dall’azienda al dipendente. Ma nello stesso tempo le iniziative di welfare racchiudono una nuova vision (immateriale), un significato nuovo della relazione fra il singolo dipendente e l’impresa. E, spesso, è proprio quest’ultimo “valore” a fare la differenza.

Di Daniele Marini

Università di Padova

Direttore Scientifico Community Media Research